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Publication Type:
Book ChapterSource:
Frontiera di Pagine: saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura, Aracne, Volume 2, ROMA, p.793-799 (2017)ISBN:
978-88-255-0161-2URL:
http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=9788825501612Full Text:
Il posto di Jorie Graham
Si chiama Il posto1 (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia2, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.
Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver
«intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.
L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa»3.
Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale, come un uomo che galoppa al tramonto su una spiaggia, la sillabazione di madre e figlia d’estate, in attesa di un varco non colmato e spinto nel mondo visibile.
Nel vortice austero della sua creatività, la prospettiva smagata e infinita si apre alla definitività, come una sorta di entusiasmo estetico, brillante e allo stesso tempo, immerso nel limite, come accade in Nella sempre mutevole inquietudine nell’aria:
L’uomo teneva la mano sul cuore mentre danzava. / Rallentava e ruotava veloce. / Le porte della piccola città / s’offuscarono. Qualcosa / filtrò, / incendiando i telai, / rendendo ogni ingresso / meno vero. / E il buio addensò / benché ancora non cali… E la piccola danza, / roteava quest’umano giù per il corridoio, / piccolo tema nervoso che si spingeva avanti, / intrecciando, sperimentando, / sempre incompleto così girando e rigirando – / oh cosa c’è da finire? – i suoi abiti irruviditi dal vortice rossastro, / che certo si fa piuù scuro verso la fine della via, / una mano sul petto, / una stesa sul fianco mentre danza, tamburella, canta, / sui suoi piedi in fuga, un po’ accenna un motivo ora, / ora chiude gli occhi mentre piroetta, rimpicciolendosi, / perché sorge il sole? non ti sorda mai di me caro perché io / tornerò – / libertà una traccia nell’aria della sera, / in cui s’aprono i lillà, le gonne s’alzano, / libertà e l’occhio sanguigno avanza dolce sbandando sulla terra / gigante, / e il gatto alla soglia che non sbaglia sul mondo, / e tiene d’occhio i posti dove prima o poi atterreranno gli uccelli.
È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione:
E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma [...] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose [...] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro [...] Certo il futuro / un tempo non era affatto là [...] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti.
La poesia di Jorie Graham chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni. Lo sguardo si muove nello sciame della realtà e del suo flusso, ricercando l’inscrizione di un germogliata mutevolezza, di una cattura di consistenza abbandonata, dove la precisazione diventa l’irrimediato mondo della scrittura, come acqua che si squarcia nel suo minuto iridescente:
Dalla ringhiera di un molo, guardo pesciolini, migliaia, / sciamare, ognuno un minuscolo muscolo, ma anche, senza / poter creare corrente, fare del loro unisono )girando, ri / piegandosi, / entrando e uscendo dal loro unisono all’unisono) fare di se stessi / una corrente visiva, che non può trasportare o smuovere d’un / attimo la spirale dell’acqua che scende e che sale, la / scia delle barche che ciclica infine ribatte sulla banchina, là dove incontra la / resistenza più profonda, acqua che sembra squarciarsi / (ha quegli strati), una corrente vera benché per lo più / invisibile che manda nel visibile (pesciolini) uno sfrecciare / veloce che impone il cambiamento – / è questa la libertà. Questa è la forza della fede. Nessuno ottiene / ciò che vuole. Non sarai mai più lo stesso. Il desiderio / è essere puro. Quel che ottieni è essere mutato. Sempre più / ogni minuto iridescente, da cui permea l’infinito, / e la dismemoria, certo, il riverbero di qualcosa / alla deriva. Qui, mani piene di sabbia, che faccio filtrare / nel vento, guardo giù e dico prendi questo, questo / ho salvato, prendilo, svelto! E se ascolto / ora? Ascolta, non ho detto nulla. Era solo / qualcosa che ho fatto. Non potevo scegliere le parole. Sono libera d’andare. / non posso certo tornare indietro. Non a questo. Mai. / È un fantasma posato sulle mie labbra. Qui: mai.
E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».
Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni. Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:
La sua lirica cattura una totalità mossa,spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo — i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti — ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile — concretamente possibile — assenza di futuro, la morte della nostra specie o una sua trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perché nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai e sempre esistiti del mito, il
«bagliore che assomiglia allo svanire», perché ogni Io ha dentro di sé il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato
di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta.4
Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, la riscrittura del visibile, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione («e parole, non giunte a me ancora, ancora non proveranno a dirmi / da dove vengono le cose, né dove vanno, dove risplenderà il flusso dell’inclinazione / nella sua veloce discesa»), come si legge in Cagnes sur mer 1950:
Sono l’unica a ricordare / la voce di mia madre nell’ombra particolare
/ dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo, il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma – o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […].
L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per
«restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto, sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».
È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo apparsa e sparita («Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo, il mio unico tempo […] / già condannata a quest’unica anima»), il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo,
per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra/ valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo.
L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia», come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.
Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.
La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno
/ arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».
Scrive Antonella Francini:
Nell’intervista rilasciata a "The Paris Review", Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato» la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo "geologico" del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche.5
È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dall’esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano
«la morbida deviazione mutata in bellezza». Ancora una volta, come annota Antonella Francini, la parola, è
scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ridefinizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo "sciame", a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo
coincidere […].6
La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale e la sua agnizione, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».
Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo sulla ringhiera, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto, tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.
1 GRAHAM J., Il posto, Mondadori, Milano 2014; GRAHAM J., LEHMAN D. (a cura di), The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.
2 ID., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Ed., Milano 2008.
3 GARAVELLI B., Poesia all’americana, in “Avvenire”, 17 marzo 2014.
4 MAGRIS C., La poesia ricuce il mondo, in “Il Corriere della Sera”, 20 gennaio 2013.
5 Vedi FRANCINI A., Sulla poesia di Jorie Graham, joriegraham.com
6 ID., cit.
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Andrea Galgano, Il posto di Jorie Graham, in Frontiera di pagine II, Aracne, Roma 2017, pp. 793-800.pdf | 1018.99 KB |